Artravelling: Meret Oppenheim: Donne nell'Arte del Novecento

giovedì 28 gennaio 2021

Meret Oppenheim: Donne nell'Arte del Novecento


 Non è stato facile! Anche se apprezzo molto il lavoro di Meret Oppenheim, farle il ritratto ammetto è stata una faticaccia. Non vedevo l'ora di lasciarmi alle spalle il 2020 ma il 2021 ha deciso di dimostrarsi subito anche peggiore. Comunque l'articolo è finalmente finito e posso dedicarmi ad altri, più simpatici, lavori. Studiando l'opera della Oppenheim e i suoi ready-made modificati, "feticci trasfigurati in chiave onirica", traspare fortemente il suo pensiero innovativo e il grande messaggio di libertà. Le sue riflessioni sulla società e sul ruolo della donna come anima umana, il suo essere surrealista e l'evoluzione della sua personalità sia come persona che come artista, l'influenza di Max Ernst e Marcel Duchamp nella formazione del suo pensiero indipendente. Tutto questo rappresenta una grande occasione per l'arte del Novecento e l'importante apporto che questa precocissima artista ha lasciato. 

"Per Meret Oppenheim l'arte è inseparabile dalla vita di tutti i giorni... ed entrambe sono caratterizzate dal contrasto fra il faceto e il serio intesi nel loro senso più estremo, da uno stupefacente miscuglio di dolcezza e di durezza sentite, con la stessa intensità..." André Pieyre de Mandiargues


Meret Oppenheim nacque nell'ottobre del 1913 a Berlino da una famiglia di origini svizzere e tedesche. Suo padre, un medico ebreo tedesco fu arruolato nell'esercito allo scoppio della prima guerra mondiale, così il resto della famiglia preferì trasferirsi in Svizzera, a Delémont, presso i nonni materni. Il suo nome, Meret, deriva dal personaggio della bambina selvaggia che vive nei boschi del romanzo Der grüne Heinrich di  Gottfried Kelle, autore svizzero di novelle. La famiglia colta le permise sin in giovane età di venire a contatto con opere d'arte moderne del  Modernismo, Espressionismo, Fauvismo e Cubismo. Sua nonna era una scrittrice e pittrice. Da lei prese un forte senso di indipendenza e libertà.
Suo padre invece la avvicinò agli scritti di Carl Jung e venne incoraggiata a scrivere i propri sogni, che studiava attentamente ed inseriva spesso nelle sue opere, usandoli come mezzo per rispondere alle proprie domande esistenziali e sul significato della vita. Il suo interesse era maggiormente verso la teoria dell'animus-anima. Inoltre rimase influenzata dagli archetipi Junghiani utilizzati come motivi ricorrenti nelle sue opere sia pittoriche che scultoree, come serpenti, insetti, spirali. Per lei non esisteva l’arte femminile o maschile ma una creatività androgina in cui gli aspetti maschile e femminile collaborano. 

Degli artisti moderni che si susseguivano in mostra in Svizzera, rimase particolarmente colpita dal lavoro di Paul Klee, a Basilea nel 1929, che le permise una visione più “astratta” della sua opera. All’età di diciotto anni si trasferì a Parigi dove iniziò ad avvicinarsi al surrealismo conoscendone alcuni artisti, come Hans Arp. Max Ernst e Giacometti. Viveva in un hotel e frequentava Académie de la Grande Chaumière, una scuola d’arte a Montparnasse libera dalle regole accademiche e poco costosa. In questo periodo si dedica soprattutto alla pittura. I surrealisti la invitarono presto a esporre con loro al “Salon des Surindépendants” dove incontrò Breton e iniziò a partecipare agli incontri al Café de la Place Blanche. Fu proprio qui che pose le basi per la sua opera pittorica, attraverso le riflessioni e il lavoro concettuale di Marcel Duchamp, Max Ernst e Francis Picabia. Questo rapporto intellettuale continuò fino agli anni 60, esponendo in mostre surrealiste.

Nella sua prima mostra a Basilea nel 1936, Meret propose molti delle sue opere realizzate con oggetti di uso comune e quotidiano, un po’ come i ready-made di Marcel Duchamp, ma pensati per alludere alla sessualità femminile e al suo sfruttamento da parte dell’uomo. La sua forte personalità, il suo carattere deciso e l’assoluta sicurezza in sé stessa trasparivano da queste opere audaci. Grande interesse suscitò l’opera Object (Le Déjeuner en fourrure), che consisteva in una tazza da the, con il suo piattino e cucchiaino, completamente ricoperta di pelliccia di gazzella cinese: la pelliccia voleva rappresentare la donna borghese, benestante. L’oggetto in sé veniva erotizzato evocando con coppa e cucchiaio i genitali femminili e maschili. Oltre del riferimento sessuale alcuni critici ne hanno cercato un significato più profondo e psicanalitico: l’immagine di una tazza e un cucchiaio rivestiti di pelliccia appaiono fuori luogo nella realtà quotidiana, quasi un incubo prodotto dall’ansia, in cui si perde il controllo della propria realtà. L’oggetto che di solito identifica un momento di relax, come bere una tazza di tè, diventa disgustoso ed aggressivo.
Si dice che l’idea per questa opera le fosse venuta dopo una conversazione con Pablo Picasso e Dora Maar al Café Deux Magots. L’intento era togliere all’”oggetto” tazza la sua funzione originaria e consumistica ed elevarla a idea concettuale, da cui la gente potesse trarre stupore, riflessione e anche divertimento. L’opera ebbe grande successo e il MoMa di New York la volle subito acquistare, pagandola però poco più di cinquanta dollari. Questo non fece altro che accrescere la notorietà della Oppenheim. 
 
L’improvviso successo in campo artistico ad una così giovane età produssero un effetto molto pesante sulla vita personale di Meret e segnò l’inizio di una lunga crisi artistica. Nonostante che producesse altre opere, il pubblico la ricordava esclusivamente per l’Object, e questo la faceva sentire imprigionata da un’idea surrealista. La crisi durò purtroppo fino al 1954. Le radici nel surrealismo l’aiutano a riavvicinarsi all’arte, grazie anche all’esperienza acquisita, riconnettendosi in termini quasi Junghiani alla parte umana ed animale, erotica ed androgina, continuando a trasformare idee familiari in opere assurde, in un gioco continuo tra conscio e subconscio. Non era femminista ma voleva che le artiste donne avessero un egual ruolo nel mondo dell’arte e nella società.
 
Credo che a differenziala dagli altri surrealisti fosse l’ironia con cui voleva far passare il suo messaggio attraverso le sue realizzazioni. L’utilizzo di oggetti comuni rimaneggiati ed assemblati in modo che immediatamente i capisse l’idea che volevano esprimere. Diretta, senza filtri. Queste idee passavano attraverso la lente della psicanalisi junghiana e spesso ne risultava un forte simbolismo femminile costellato di riferimenti sessuali. Ne è un esempio l'opera "La mia tata" realizzata con due scarpe da donna legate a un piatto da portata. Da qui probabilmente deriva la visione di un certo feticismo borghese, in cui la donna si trovava “legata” in stereotipi e modelli preimpostati, anche se non sopportava che si desse un’interpretazione troppo erotica delle sue opere.
 
Il surrealismo come metodo di espressione era perfetto per il suo scopo; le permetteva di sperimentare con diversi media, di non fossilizzarsi in uno stile ma poter evolvere in libertà. Man Ray la fotografò nel 1933 nel ciclo di quadri "Érotique voilée" e questa sua libertà e la giovane età da femme-enfant, ne fecero la “musa del Surrealismo”, tanto che la sua opera "Object" era definita "Monna Lisa ". Nel 1938 visitò con Leonor Fini e André Peyre de Mandiargues il Nord Italia. Nel 1939 tornò a Parigi per partecipare a una mostra sull’arredamento “fantastico”, dove presentò il suo celebre tavolo con le zampe da pollo.
 
Chiusa la breve relazione con Ernst, allora sposato con Marie Berthe, per paura che la sua creatività fosse schiacciata dalle idee del pittore molto più anziano di lei, nel 1936 tornò in Svizzera, prima a Basilea poi a Berna, e qui si iscrisse alla scuola di arti applicate. Per problemi economici di famiglia, dopo che al padre medico ebreo venne negata la possibilità di esercitare dai nazisti, si mise a lavorare soprattutto nel design e nell’arredamento. Il suo motto era “non piangere, lavora”! Solo nel 1958 riprese a lavorare alla sua arte a pieno ritmo. 
Nel 1959 realizzò a Berna e poi all'esposizione EROS di Parigi, il celebre happening “Festino di primavera”: un banchetto apparecchiato sul corpo nudo di una donna su cui i partecipanti, tre uomini e tre donne interagivano direttamente festeggiando la fecondità della natura, e il pubblico poteva assistere attraverso un vetro. Purtroppo nell'esposizione di Parigi la sua opera viene "semplificata" riducendone il significato e volgendolo in chiave sessista, permettendo ai soli uomini di parecipare alla performance. L'opera viene citata comunque quale anticipatrice della body art.
 
Per questo motivo spesso Meret si scontra con i critici d’arte per fornire le dovute spiegazioni alla sua opera fraintesa. Prende molti appunti e pubblica diversi testi. Vuole chiarire la sua posizione. Non vuole che il suo lavoro venga letto solo in chiave femminile, ma come prodotto di un’artista che vuole essere anticonformista, e poter esprimere la duplicità dei caratteri sessuali presente in ogni essere umano. Inizialmente era vista come una musa disinibita che si faceva ritrarre nuda, ma con il tempo il suo lavoro ha iniziato a parlare per lei sottolineandone la profondità di intenti. Anche il suo volto con il tempo ha perso la morbidezza della giovinezza per trasformarsi in un volto concreto, forte, con negli occhi un guizzo di humor.  
 
Negli anni '60 Oppenheim prende le distanze dai surrealisti. Sentiva di appartenere alla generazione del dopoguerra, che era più giovane. Oppenheim era in particolare "fedele a se stessa" e ha affrontato temi nuovi nel suo lavoro con un "linguaggio pittorico fresco". Nonostante questo, Oppenheim non ha mai avuto i suoi studenti, ma a volte faceva da mentore ad artisti più giovani. Nel 1968 Oppenheim tiene una mostra personale alla Galerie Martin Krebs di Berna.

Nel 1982 Meret è stata insignita del Gran Premio della Città di Berlino e ha preso parte a “Documenta 7” a Kassel. Nel 1983 la fontana Oppenheim da lei creata è stata inaugurata in Waisenhausplatz a Berna: un’opera in divenire, una colonna su cui l’acqua permette la crescita di una florida vegetazione, un'enorme torre vegetale. Nel 1985 ha realizzato una scultura fontana per i Jardins de l'ancienne école Polytechnique di Parigi. Nel 1984 una sua opera è apparsa nella rivista d'arte TROU n. 4, per l'edizione speciale ha creato la grafica originale con l'impronta della propria mano.
 

Meret Oppenheim morì nel 1985 all'età di 72 anni. Nel complesso la vita di Meret è stata un atto artistico, non poteva dividere la sua arte dalla vita vissuta. Aveva evitato con cura tutte le vie classiche della società, come la maternità o un matrimonio convenzionale, sentendosi in esse costretta a vivere incatenata. Anche se non è riuscita a commercializzare a pieno il suo nome, facendo fortuna in vita, la sua arte è più viva e moderna che mai.

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